sabato 27 aprile 2013

La Vitamina D, un valido aiuto da non dimenticare.

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La vitamina D è essenziale per la salute dell'osso, nel bambino suoi livelli ematici inadeguati causano il rachitismo, un difetto di mineralizzazione della cartilagine di accrescimento e dell'osso ancora in formazione.
La scoperta che le cellule della maggioranza dei tessuti posseggono un recettore per la vitamina D e che gran parte di esse è in grado di convertire la 25-idrossivitamina D circolante, nelle forma attiva, cioè nell'1-25 diidrossivitamina D, ha permesso di chiarire meglio la fisiopatologia di questa vitamina.
 
Il rachitismo è la più appariscente delle manifestazioni di carenza, ma la vitamina D ha anche effetto sulla pressione arteriosa, sul sistema respiratorio diminuendo le riacutizzazioni dell’asma e l’insorgere di raffreddori o epidemie influenzali. La carenza di vitamina D sembra inoltre influenzare la comparsa di malattie autoimmuni quali il diabete di tipo 1, lo sviluppo di alcuni tumori (colon, prostata, polmoni, sistema linfatico, seno), l’insorgenza e la manifestazione di alcune patologie cutanee quali la psoriasi e la dermatite atopica.


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La fonte principale di vitamina D è il sole: esponendosi al sole in modo corretto, la nostra pelle produce, infatti, circa l’80% del suo fabbisogno. Agli esseri umani quindi la vitamina D arriva dall'esposizione alla luce del sole, dalla loro dieta e dai supplementi di vitamina, aggiunti alla dieta. Una dieta ricca di olio di pesce previene la deficienza di vitamina D. La radiazione solare ultravioletto B (lunghezza d'onda fra 290 e 315 nm) penetra attraverso la cute e converte il 7-deidrocolesterolo in previtamina D3, che è rapidamente convertita in vitamina D3 (vedi Figura ). Poiché un eventuale eccesso di previtamina D3 o di vitamina D3 è distrutto dalla stessa luce del sole, un'eccessiva esposizione alla luce del sole non causa mai intossicazione da vitamina D3 .


 
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La vitamina D, se da un lato si può considerare una vera e propria vitamina (infatti circa il 20% del suo fabbisogno viene assunto con l’alimentazione), dall’altro, una volta trasformata nella sua forma attiva, agisce come un ormone, in grado di regolare diverse funzioni del nostro organismo.



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Deficit di vitamina D si riscontra di frequente nelle varie fasce di età, in particolare in quella pediatrica. I bambini appartenenti a gruppi etnici che presentano con maggior frequenza ipovitaminosi D, soprattutto per motivi costituzionali e religiosi (iperpigmentazione melanica della cute, uso di indumenti e veli coprenti ) sono particolarmente a rischio.



Un bambino di qualche anno fa, dopo i compiti, incontrava gli amici nella strada sotto casa per giocare a pallone, andare in bicicletta o fare giochi di gruppo all’aperto. Il bambino di oggi, invece passa la maggior parte del suo tempo libero al chiuso col suo pc nel suo mondo virtuale, oppure è portato in palestra per fare attività che si svolgono sempre al chiuso.


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I fattori di rischio principali per la carenza sono: il colore scuro della pelle; la povertà , il sesso: le femmine sono più a rischio dei maschi (x 2). Fattori di rischio aggiuntivo in altre età della vita sono il sovrappeso e l'obesità, ed il tempo (>4 h/die) passato alla televisione. L'ipovitaminosi D può essere presente già alla nascita nei nati da madri con grave carenza di vitamina D, come ad esempio si può verificare in  donne gravide che si espongono poco al sole.
La vitamina D si misura quantificando i livelli di 25(OH)D presenti nel sangue ed esprimendo la sua concentrazione o in nanogrammi per millilitro (ng/ml) o nanomoli per litro (nmol/L);
1ng/ml x 2,5 = 1nmol/L
La scelta del limite da adottare per stabilire uno stato vitaminico D sufficiente è quanto mai discusso ed affannoso.
Basti pensare che gli inglesi considerano deficienza sotto i 20 nmol/L ( 10 ng/ml ), l'IOM-l'AAP-l'ESPGHAN considerano deficienza sotto i 50 nmol/L ( 20 ng/ml ), l'Endocrine Society e l'IOF considerano anche la fascia di insufficienza tra  i 50 e 75 nmol/L ( 20 e 30 ng/ml ).
La ricerca del valore "normale" è stata effettuata in tanti modi (correlazioni col PTH, con l'assorbimento intestinale di calcio, con i valori densitometrici, addirittura con la percentuale di osteomalacia alle autopsie), ma purtroppo persiste l'incertezza.
Possiamo attenerci  ai seguenti valori controllabili tramite un esame del sangue :




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Si può parlare di insufficienza di Vitamina D quando i livelli ematici della vitamina sono inferiori a 30 ng/ml e di carenza grave per livelli inferiori a 20 ng/ml.



L'apporto di Vitamina D con la dieta è scarso e non è facile determinare quale sia il tempo di esposizione alla luce solare che garantisce al singolo individuo un'adeguata sintesi cutanea di questa vitamina e che per questo motivo sono state riviste le raccomandazioni che permettono di assicurare livelli adeguati di questa Vitamina a tutti i lattanti compresi quelli esclusivamente allattati al seno. Inoltre in Europa solo pochi alimenti sono integrati con Vitamina D e i bambini sono particolarmente esposti al rischio di carenza.
 
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Nessuno studio ha dimostrato benefici aggiuntivi a dosi maggiori di 400 UI/die in lattanti o bambini e che per i lattanti allattati esclusivamente al seno occorrono almeno 400 UI/die per mantenere le concentrazioni sieriche di vitamina al di sopra delle 50 nmol/l escludendo il rischio di rachitismo nutrizionale. Anche i bambini che assumono meno di 500 ml un latte formulato devono ricevere la supplementazione di vitamina D.



Per i lattanti una supplementazione di 400 UI/ die viene raccomandata dall'Institute of Medicine of the National Academies, dall'American Academy of Paediatrics, dal Drug and Therapeutics Committee of the Lawson Wilkins Paediatric Endocrine Society, dalla Canadian Paediatric Society e dalla European Society for Paediatric Endocrinology recommend.



I neonati ad alto rischio durante l'inverno dovrebbero essere supplementari con 800–1000 UI/die secondo la European Society for Paediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition. Raccomandazioni analoghe si ritrovano anche nelle linee guida del Dipartimento di salute in UK secondo cui tutti i bambini allattati al seno devono essere supplementati sino a i 5 anni.


Madre natura sperava che il sole fosse sufficiente, forse non aveva considerato l'incremento della prevalenza di obesità, l'uso dei filtri solari e quanto poco tempo i bambini e gli adolescenti di oggi passano all'aria aperta.
Supplementare tutti sicuramente è eccessivo; penso sia opportuno identificare quelle categorie a rischio e concentrarci essenzialmente su quelle.




























mercoledì 17 aprile 2013

Aiuto mio figlio ha una zecca…

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Con l’inizio dei primi caldi può capitare di trovare al ritorno da una gita all’aperto un ospite inatteso attaccato a vostro figlio….

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Le zecche sono artropodi (acari appartenenti alla classe degli Arachnidi), parassiti esterni delle dimensioni di qualche millimetro. Il loro ciclo vitale si sviluppa in tre fasi successive (larva-ninfa-adulto) che si possono svolgere tutte su uno stesso ospite oppure su due o tre ospiti diversi. Non sono molto selettive nella scelta dell’organismo da parassitare, ma possono scegliere diverse specie animali dai cani ai cervi, agli scoiattoli fino all’uomo.

 

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In Italia sono presenti due famiglie di zecche: quella delle Ixodidae (zecche dure) e quella delle Argasidae (zecche molli). Le zecche dure hanno un caratteristico scudo dorsale chitinoso e in Italia comprendono 6 generi: Ixodes, Boophilus, Hyalomna, Rhipicephalus, Dermacentor, Haemaphysalis. Le zecche molli, sprovviste di scudo dorsale, sono presenti con due generi: Argas e Ornithodorus.

Le zecche necessitano di pasti di sangue per completare il loro sviluppo e ciclo riproduttivo, ma possono resistere per lunghi periodi di tempo a digiuno assoluto. La loro attività è massima, nei Paesi a clima temperato, nel periodo maggio-ottobre. Il pasto di sangue, durante il quale la zecca rimane costantemente attaccata all’ospite, si compie nell’arco di ore per le zecche molli, di giorni o settimane per le dure.

Le zecche sono in grado di trasmettere all’uomo numerose e differenti patologie: la borreliosi di Lyme, l’ehrlichiosi, le febbri bottonose da rickettsiae, la tularemia, la febbre Q, la babesiosi e l’encefalite virale. Gli Argasidi sono vettori di patologie meno rilevanti dal punto di vista epidemiologico: febbri ricorrenti da zecche e febbre Q.


imagesCAZ823I2L’habitat preferito è rappresentato da luoghi ricchi di vegetazione erbosa e arbustiva, con microclima preferibilmente fresco e umido, ma le zecche possono trovarsi anche in zone a clima caldo e asciutto o dove la vegetazione è più rada. La loro presenza dipende, infatti, essenzialmente dalla presenza sul territorio di ospiti da parassitare, per questo luoghi come stalle, cucce di animali e pascoli sono tra i loro habitat preferiti.
Con l’inizio della bella stagione le zecche abbandonano, lo stato di letargo invernale e si avviano alla ricerca di un ospite da parassitare.

Nei mesi primaverili ed estivi, che vanno da aprile a ottobre, è quindi più frequente cadere vittima del cosiddetto "morso da zecca".

 


Il morso della zecca non è di per sé pericoloso per l’uomo, i rischi sanitari dipendono invece dalla possibilità di contrarre infezioni trasmesse da questi animali in qualità di vettori.

Le malattie trasmesse da zecche sono, nell’ambito delle malattie da vettore, seconde solamente al gruppo di patologie trasmesse dalle zanzare come rilevanza epidemiologica.
L’eziologia di queste malattie da vettore comprende diversi microrganismi: protozoi, batteri e virus.

Le patologie infettive veicolate da zecche che presentano rilevanza epidemiologica nel nostro Paese sono:

La maggior parte di queste malattie può essere diagnosticata esclusivamente sul piano clinico, ma una pronta terapia antibiotica, nelle fasi iniziali, è generalmente risolutiva in particolar modo per le forme a eziologia batterica.

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Le zecche non saltano e non volano sulle loro vittime, ma si appostano all’estremità delle piante aspettando il passaggio di un animale o di un uomo. Grazie all’anidride carbonica emessa e al calore dell’organismo, questi acari avvertono la presenza di un eventuale ospite e vi si insediano conficcando il loro rostro (apparato boccale) nella cute e cominciando a succhiarne il sangue.

 

Il morso è generalmente indolore perché emettono una sostanza contenente principi anestetici.

Generalmente rimangono come parassiti nell’organismo dell’ospite per un periodo che varia tra i 2 e i 7 giorni e poi si lasciano cadere spontaneamente.


Prevenzione


Esistono alcune precauzioni per ridurre significativamente la possibilità di venire a contatto con le zecche, o perlomeno per individuarle rapidamente, prima che possano trasmettere una malattia. Coloro che si apprestano a recarsi in aree a rischio dovrebbero:

  • vestirsi opportunamente, con abiti chiari che rendono più facile l’individuazione delle zecche, coprire le estremità, soprattutto inferiori, con calze chiare (meglio stivali), utilizzare pantaloni lunghi e preferibilmente un cappello.
  • evitare di toccare l’erba lungo il margine dei sentieri, non addentrarsi nelle zone in cui l’erba è alta.
  • terminata l’escursione, effettuare un attento esame visivo e tattile della propria pelle, dei propri indumenti e rimuovere le zecche eventualmente presenti. Le zecche tendono a localizzarsi preferibilmente sulla testa, sul collo, dietro le ginocchia, sui fianchi.
  • trattare gli animali domestici (cani) con sostanze acaro repellenti prima dell’escursione.
  • spazzolare gli indumenti prima di portarli all’interno delle abitazioni.

Se individuate sulla pelle, le zecche vanno prontamente rimosse perché la probabilità di contrarre un’infezione è direttamente proporzionale alla durata della permanenza del parassita sull’ospite. Bisogna comunque tenere presente che solo una percentuale di individui è portatore di infezione.

Rimozione della zecca

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  • la zecca deve essere afferrata con una pinzetta a punte sottili, il più possibile vicino alla superficie della pelle, e rimossa tirando dolcemente cercando di imprimere un leggero movimento di rotazione.
  • durante la rimozione bisogna prestare la massima attenzione a non schiacciare il corpo della zecca, per evitare il rigurgito che aumenterebbe la possibilità di trasmissione di agenti patogeni.
  • disinfettare la cute prima e dopo la rimozione della zecca con un disinfettante non colorato. Dopo l’estrazione della zecca sono indicate la disinfezione della zona (evitando i disinfettanti che colorano la cute).
  • evitare di toccare a mani nude la zecca nel tentativo di rimuoverla, le mani devono essere protette (con guanti) e poi lavate.
  • spesso il rostro rimane all’interno della cute: in questo caso deve essere estratto con un ago sterile.
  • distruggere la zecca, possibilmente bruciandola.

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Cosa non fare

  • Non utilizzare mai per rimuovere la zecca: alcol, benzina, acetone, trielina, ammoniaca, olio o grassi, né oggetti arroventati, fiammiferi o sigarette per evitare che la sofferenza indotta possa provocare il rigurgito di materiale infetto.

zecca3Alla rimozione della zecca dovrebbe seguire un periodo di osservazione della durata di 30-40 giorni per individuare la comparsa di eventuali segni e sintomi di infezione. Se dovesse comparire un alone rossastro che tende ad allargarsi oppure febbre, mal di testa, debolezza, dolori alle articolazioni, ingrossamento dei linfonodi, è importante rivolgersi al proprio medico curante.

 

La somministrazione di antibiotici per uso sistemico nel periodo di osservazione è sconsigliata, perché può mascherare eventuali segni di malattia e rendere più complicata la diagnosi.
Nel caso in cui, per altre ragioni, fosse necessario iniziare un trattamento antibiotico, è opportuno impiegare farmaci di cui sia stata dimostrata l’efficacia sia nel trattamento delle rickettsiosi che delle borreliosi.

lunedì 8 aprile 2013

Novità in pillole : La L-Carnitina presente nella carne rossa aumenta il rischio di malattie cardiovascolari








Che mangiare carne rossa aumenti il rischio di disturbi cardiaci è già noto, ma che la colpa sia dovuta oltre ai grassi saturi e colesterolo, ai batteri intestinali è una novità. 

Una ricerca appena pubblicata sul giornale Nature Medicine ha studiato il metabolismo di una sostanza: la L-carnitina, presente nella carne rossa e in alcuni integratori alimentari e bevande energetiche. 





Un team di ricercatori della Cleveland Clinic, in Ohio, ha dimostrato che i batteri presenti nell'apparato digestivo metabolizzano la sostanza in trimetilammina-N-ossido (TMAO), che favorisce la aterosclerosi nei topi.

Studiando il fenomeno nel genere umano, uno studio  condotto su 2.595 pazienti, tra onnivori, vegetariani e vegani,  ha inoltre rivelato che il consumo di carne favorisce la presenza dei batteri che metabolizzano la L-carnitina in TMAO ed aumenta parallelemente il rischio per malattie cardiovascolari : infarto miocardio, ictus , arteriosclerosi.  

Una dieta di supplementazione di L-carnitina nei topi alterata composizione microbica del cieco ( una porzione dell'intestino ), aumentando nettamente la sintesi di TMAO con un maggior rischio di aterosclerosi e questo non si è verificato se il microbiota intestinale è stato contemporaneamente soppresso.


Il Dubbio : Secondo gli esperti alla luce di questo studio e’ quanto meno da ripensare il legame tra consumo di carne rossa e malattie cardiovascolari: potrebbe essere la carnitina a spiegarlo, oltre a colesterolo e grassi saturi.  

I vari integratori presenti in commercio presentati come toccasana?







sabato 6 aprile 2013

Il trattamento farmacologico in bambini con Sindrome da Iperattività sembra non avere effetti significativi sulla riduzione dei sintomi.

(DIRE - Notiziario Minori)

 

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Roma, 29 mar. - Il più importante studio a lungo termine mai condotto su bambini in età prescolare diagnosticati ADHD (Sindrome da Iperattività' e Deficit di Attenzione, la presunta patologia dei bambini troppo agitati e distratti), pubblicato recentemente sull'autorevole rivista scientifica internazionale 'Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry', rileva che il trattamento farmacologico ( metilfenidato ) precoce su bambini con problematiche di comportamento in classe e in famiglia non ha effetti significativi sulla riduzione dei sintomi: 9 bambini su 10 continuano a manifestare il problema anche molto tempo dopo l'inizio del trattamento farmacologico, e ciò al di la della gravità della patologia.


Emilia Costa, professore Emerito di Psichiatria e già titolare della 1^ Cattedra di Psichiatria dell'Università di Roma "La Sapienza", commenta così lo studio americano: "La tesi dei colleghi americani conferma quanto da tempo dicevamo, ovvero che il cervello del bambino in evoluzione ha necessità fondamentale più che di psicofarmaci di un adeguato e sano apporto alimentare, di un contesto affettivo positivo, di movimento e di stimoli ambientali, di attenzione al clima, alla temperatura, alla ventilazione, ai campi elettromagnetici, e molto altri accorgimenti necessari e dovuti in una fase delicata come quella della crescita. L'assenza o la carenza di uno solo di questi apporti fondamentali può causare anormalità comportamentali e deficit che non sono regolabili 'magicamente' ingerendo una pastiglia di psicofarmaco. Anzi, l'assunzione di psicofarmaci rischia di modificare il normale sviluppo del cervello del bambino e dell'adolescente fino a produrre diversi disturbi di personalità, che vengono poi classificati come altre malattie 'ovviamente' da curare con altri psicofarmaci. Così la catena della malattia psichica - conclude Costa - si perpetua in eterno, per la gioia delle multinazionali del farmaco e dei loro ricchi bilanci".

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L'indagine, condotta su Bambini considerati con problemi di comportamento e temperamento tra i 3 e i 5 anni, ha osservato i piccoli pazienti nei sei anni successivi alla prima diagnosi.

Dei 207 bambini arruolati, 206 hanno partecipato alla valutazione a 3 anni di distanza, 189 hanno partecipato alla valutazione dopo  4 anni e 186 hanno preso parte alla valutazione dopo  6 anni.

I sintomi tipici dell'ADHD ( disattenzione, iperattività ed impulsività ) sono continuati per circa il 90% del numeroso gruppo di bimbi coinvolti nella sperimentazione, anche sei anni dopo la diagnosi, senza evidenziare rilevanti differenze tra il gruppo trattato farmacologicamente e quello che non ha assunto farmaci.

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Sul punto è intervenuto anche Luca Poma, giornalista e Portavoce di "Giù le Mani dai Bambini½", il più rappresentativo comitato italiano per la farmacovigilanza pediatrica. "Sono anni che sosteniamo l'inutilità di questi psicofarmaci, che hanno un effetto limitato nel tempo e per contro espongono i bambini a gravi rischi. Ci appelliamo all'Istituto Superiore di Sanità, che sta collaborando alla stesura delle nuove linee guida per il trattamento dell'ADHD, affinchè, nel rispetto della propria missione di ente pubblico imparziale che lavora per il bene di tutta la cittadinanza, includa queste nuove evidenze scientifiche nei protocolli. Quella parte di comunità scientifica che promuove - spesso in pieno conflitto d'interessi – l'utilità dell'uso di molecole psicoattive e anfetamine su bambini piccoli e adolescenti, deve finalmente ammettere che il presunto beneficio è di breve termine, che si riducono solo i sintomi - peraltro a prezzo di rischi per la salute dei più piccoli - e che queste cosiddette terapie non curano assolutamente nulla.
Ciò che serve è una presa in carico 'non semplicistica' per i piccoli con problemi di comportamento: come diceva un grande pediatra americano, il Dott. Bill Carey, bisogna diffidare delle soluzioni 'quick-fix', soluzioni facili a problemi complessi".


Secondo i ricercatori, oltre il 7% dei bambini americani sono attualmente in trattamento per l'ADHD, per una stima di incassi da parte delle multinazionali farmaceutiche coinvolte che oscilla 36 e 52 miliardi dollari all'anno.

L’assunzione del farmaco quindi non sembra fare la differenza in più di due terzi dei bambini.

In particolare, il 62% dei bambini che hanno assunto farmaci anti- ADHD mostravano iperattività e impulsività clinicamente significativa, rispetto al 58% di quelli che non avevano assunto farmaci. Anche la disattenzione era clinicamente significativa nel 65% dei bambini in terapia, rispetto al 62% nei bambini non trattati farmacologicamente.

Tuttavia, i ricercatori avvertono che non è chiaro se la mancanza di efficacia dei farmaci sia dovuta alla scelta del farmaco, non ottimale, al dosaggio, alla scarsa adesione, all’inefficacia del farmaco di per sé, o ad altre ragioni.

“Il nostro studio non è stato progettato per rispondere a queste domande, ma qualunque sia il motivo, è preoccupante che i bambini con ADHD, anche se trattati con i farmaci, continuino ad avere sintomi”

Così ha affermato il Dr Mark Riddle ricercatore psichiatra pediatrico presso il Centro Pediatrico Johns Hopkins. "L'ADHD sta diventando la diagnosi più comune nella prima infanzia. Capire come la malattia progredisce in questa fascia di età è un fattore critico. Abbiamo scoperto che l'ADHD nei bambini in età prescolare è una condizione cronica e abbastanza persistente, che richiede un miglior trattamento comportamentale e farmacologico a lungo termine rispetto a quello attuale. "

I bambini che avevano un disturbo oppositivo-provocatorio e un disturbo della condotta in aggiunta all’ ADHD hanno avuto il 30% in più di probabilità di avere i sintomi di ADHD persistenti sei anni dopo la diagnosi, rispetto ai bambini la cui unica diagnosi era di ADHD.

“L’ADHD è considerata una condizione neurocomportamentale ed è caratterizzata da incapacità di concentrazione, irrequietezza, iperattività e comportamento impulsivo, e può avere effetti profondi e duraturi sullo sviluppo intellettuale ed emotivo di un bambino”, ha aggiunto il dr. Riddle, “questo può mettere in pericolo l’apprendimento e il rendimento scolastico e anche la sicurezza fisica, infatti i bambini con ADHD sono a più alto rischio di infortuni e ricoveri. “

 

 

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I risultati di questo studio indicano secondo me  che forse l’attuale terapia farmacologica debba essere rivista.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Riddle M.A., Yershova K., Lazzaretto D., Paykina N., Yenokyan G., Greenhill L., Abikoff H., et al. (2013). The Preschool Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder Treatment Study (PATS) 6-Year Follow-Up Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 52(3) (March 2013).